La terza via.
Perché Joyce oggi? E perché farlo in questa maniera (Mollysday)?
Perché la questione di Joyce è, a nostro avviso, ancora la nostra: salvarsi dalla morsa di passato e presente, amandoli entrambi. Insofferenti in entrambi. Nella produzione artistica questo ha delle conseguenze immediate, che si raccolgono in un problema di identità.
Se vogliamo declinare lo schema di questa impasse: disagio nella scelta fra tradizione o tendenza, cultura dominante o marginale, ‘fuori o dentro le mura’ (della città, regione, nazione, continente) – anche linguisticamente; a responsabilità storica o rifiutando di identificarsi in una vicenda di sconfitte, quando non di schiavitù (o di sopraffazione).
E trovare insopportabile la scelta di schierarsi fra gli apparatčiki o fra i vessati; del ritrovarsi emarginati o integrati nel ‘sistema’; rimanere vittime o farsi approfittatori; o detto più brutalmente, ‘vecchi’ o ‘alla moda’; derisi o ‘venduti’. Eterno studente o arbiter elegantiarum – nel migliore dei casi.
In termini joyceani: inglesi o ‘gaelici’; cattolici (madre) o destrutturati (padre).
Amando entrambi i mondi; insofferenti in entrambi.
L’amore per il passato produce un gusto; ne consegue spesso il rigetto del presente. L’amore per il presente risponde a un’esigenza di vitalismo, ma anch’esso è destinato a infelicità (‘La dolce vita’); a naufragio (ovv. Leopardi). ‘Dolci’ entrambi.
Per usare due campioni: il giornalismo per il senso di realtà; la filologia per la serietà.
Tutte esperienze di ‘coscienza infelice’, di irraggiungibilità. Di ‘immensità’. Non è una questione di valore – la presenza di valore è propriamente il motivo dell’infelicità. Il valore del passato è pacifico (in Joyce i Gesuiti e Tommaso d’Aquino per la struttura, la langue; Shakespeare e co. per la ‘parole‘). Il valore del presente è esistenziale, ineliminabile per statuto – Bloom: il corpo (vs Dedalus, lo spirito).
In parentesi: una risposta continuamente ripresa in Italia è quella di Pasolini: uscire dal presente (omologazione) e dal passato (letto marxisticamente) cercando la vitalità, attributo del presente, in un tempo preterito, ‘terzo’; in un ‘altrove’ sociale, precedente. Un tentativo anch’esso destinato consapevolmente a disperazione (‘Petrolio’ forse escluso).
Detto altrimenti, nei termini contemporanei, ‘Pop’, così insopportabilmente intimi ormai: l’artista, è o un mutante o un clone. Futilità del secondo, sofferenza del primo.
Chi si allontana dal contemporaneo lo fa infatti per gusto (magari per disgusto). E trova accoglienza – o rifugio – nelle forme di identità minore: l’insegnamento – compendio di amore del passato e per l’avvenire, a costo dell’Angelo Azzurro. O l’isolamento, luogo di libertà negativa – a prezzo di misantropia, ‘vizio’, o ridicolo.
L’unica via felice è quella seguita meglio di tutti da Joyce. La New Jerusalem, la New Dublin ricostruita sul continente. La casa dell’individuo è nell’esilio. La Madrepatria è la terra dei padri e delle madri; non dei figli.
Il Gesto di Joyce
Tra Irlanda e Inghilterra, le due ‘wandering rocks’, Joyce fugge, da Caino quale a tratti è stato, a est di Eden; e come l’Ulisse di Dante oltrepassa le sue personali porte d’Ercole; il nuovo Ulisse diventerà l’autore di se stesso alla fine del libro (come accade in Proust); il 16 giugno 1904 è un giorno di migrazione, di metempsicosi (parola-feticcio in Ulisse); il giorno in cui incipit Vita Nova.
L’oggetto-codice
L’artista, verificazione, prosecuzione dell’uomo, crea. E creare, geneticamente parlando, vuol dire fondere (“to forge”, per usare il verbo joyceano) un nuovo DNA, una matematica inedita. Ogni opera quindi deve creare il proprio linguaggio – ecco perché Mollysday ‘fatto così’.
La tensione, l’elettricità fra mito e quotidiano è il tema dell’Ulisse, non a caso; solo nella creazione (di un artefatto come Codice genetico, non come oggetto: in passato si è anche adoperato in proposito il concetto, più vago, di ‘stile‘) nasce l’individuo.
Fra l’incubo della storia e l’incubo della ‘dear dirty Dublin’, l’unica strada è il futuro. Non però come un Futurismo, che toglie aprioristicamente valore al passato – scaricando uno dei poli.
Bensì, e questo a nostro parere è decisivo, per necessità imposta dal gusto, cioè dalla conoscenza della Storia (con i suoi sottoinsiemi – quali la politica, ad esempio). Con un processo a posteriori, in cui la musica si compone ‘sul pianoforte’ (Stravinski vs Schönberg), non per assunti (ambiguità delle avanguardie). Solo il gusto, la continuità, genera organismi vivi (episodio 14 dell’Ulisse: il “parto storico”).
L’opera nuova, l’unica via d’uscita, va però ben distinta dalla ‘novità’, caratteristica principale del ‘contemporaneo’, del pubblicitario, dell’editoria di consumo. Pro-creazione vs ri-creazione. La novità è infatti l’aggiornamento periferico, non linguistico. Detto in termini informatici, la novità è un diverso modello; il nuovo è un diverso sistema operativo.
Un nuovo che non potrà essere una versione semplicemente aggiornata del vecchio – il figlio Rudy non riporterà in vita il padre Rudolph.
Di contro, il Non serviam (‘non servirò’) di Dedalus è solo parte negativa, destruens (del lampadario, in Circe; della luce).
Tornando infatti all’Ulisse, nel contrappunto delle continue ricapitolazioni (episodi 10, 15, 18, prove di eterno ritorno o, citando, di ‘reincarnation’), fra integrazione e censura, fra Scilla e Cariddi, tra Mulligan e Haines, tra Conmee e il Viceré, tra Carr e Compton, tra Stephen e Mulligan (Bloom che sgattaiola)… il gesto di Joyce ripete continuamente quello di Ulisse, che varca lo stretto e come un Elia, o un Icaro, prende il volo.
Molly – secondo noi
Molly, la ninfa semitico-fenicia, custode delle porte d’Ercole, dalla ascendenza divina (Lunita*-Peribea, misteriosa divinità lunare, unitasi allo spartano Icario – Maggiore Tweedy) è l’unico essere privo di nostalgia.
*Lunita Laredo – Lunita, (‘piccola luna’; “The young may moon”…) La-re-do: già Finnegans.
+:P.s. la versione in Inglese ha qualche diversità; e delle note aggiunte.
